Marika ha 26 anni, una voce squillante. Scandisce le parole, una a una, perché sa che hanno un peso. È infermiera solo da un anno e lavora all’Ospedale Uboldo a Cernusco sul Naviglio. L’ho contattata perché mi ha commosso profondamente il suo post in cui ha pubblicato le foto delle tute realizzate da sua nonna Maria con i sacchetti della spazzatura cuciti a macchina per proteggere la nipote e i suoi colleghi da un nemico invisibile. “Le abbiamo usate davvero sopra le nostre divise. Un caldo pazzesco!”, mi dice con la voce sorridente. Poi le chiedo di raccontarmi della sua esperienza. Di questi giorni disperati.
“All’inizio mi trovavo in un’isola felice dell’ospedale. Lavoravo in un reparto privato di riabilitazione Parkinson e non mi occupavo di Covid-19. Ma è durato poco. Quando una nostra paziente si è ammalata tutto il personale è stato sottoposto al tampone (una cosa non frequente purtroppo nelle strutture sanitarie, ndr). E da lì è cambiato tutto. La cosa più difficile è dover comunicare ai parenti la diagnosi. È vissuta come una condanna. Perché sanno che non potranno più stare accanto alla persona che amano. E che magari morirà. E morire così, da soli, è terribile. Non ha dignità. Assistere a tutto ciò è struggente”.
La ascolto e mi sale il magone quando mi racconta di una telefonata di un paziente alla figlia e ai nipoti. Del dolore di un saluto che potrebbe essere un addio. Da lontano. “A volte ci viene da piangere, sembra di scoppiare. Ma dobbiamo buttare giù e sembrare forti. Io amo il mio lavoro. Visceralmente. L’ho scelto già anni fa, da ragazzina, quando ho assistito mio nonno nell’ultimo periodo della sua vita. Ho avuto la fortuna di tenergli la mano fino a quando ha esalato l’ultimo respiro. Oggi i nipoti non lo possono fare. Ci siamo solo noi accanto ai pazienti”.
Grazie Marika. E grazie anche a tua nonna Maria, che combatte con gli strumenti che ha. Per te e per tutti noi.